9.28.2012

 

Le porno ricette di Mifuma


“La letteratura softporno ha contribuito a riavvicinare le donne alle librerie” dicono le riviste specializzate. Molte giovani donne, inoltre, si sono avvicinate alla penna scoprendosi scrittrici, e per questo si sono ritrovate al Festival della letteratura di … con la speranza di trovare un editore. Un altro libro che sembra risvegliare l’interesse delle donne è quello sulla cucina, anch’essa passione mai sopita nel loro cuore …
Che ho fatto? Allora è vero: “Sono proprio un’imbecille!” Ho scritto la storia di Emma, una donna semplice, figlia di un mondo che non vogliamo guardare negli occhi, che abusa violento, e violento uccide. Allora è vero: “Sono fuori tempo, stonata ululo mentre tutto intorno è un canto.”
Ora basta, mi riciclo con quel minimo di furbizia che è degna dell’intelligenza. Quel tanto che basta a rendersi idonei alla vita. Scriverò un altro libro – quasi un istant book : “Le porno ricette di Rita Pani”. Rita Pani non è un nome esotico, però. Quali scenari morbosi o suadenti potrebbe mai svelare? Meglio uno pseudonimo. “Le porno ricette di Mifuma Lafiga”. Vedo già la copertina, nera. Il nome sopra scritto in rosa shocking MIFUMA LAFIGA … LE PORNO RICETTE. Le gambe di una donna in bianco e nero un po’ divaricate, le scarpe rosse tacco 30; davanti alla cosa, una padella fumante retta dalle mani della donna misteriosa, di cui non si deve vedere altro, perché nel softporno molto deve essere lasciato all’immaginazione.
Il resto, come per ogni libro, verrà da sé; l’importante è cominciare. “Timballo sexy piselli e patate” per esempio, o cose così, di alta cucina e bassa puttaneria. Forse il “Pollo inculato al limone” sarebbe troppo volgare, sebbene sia un piatto che preparo spesso: Prendi un busto di pollo, lo lavi e gli ficchi dentro un limone intero, un rametto di rosmarino e poi lo fai arrostire, avendo la pazienza di rigirarlo ogni mezz’ora. Allora è vero, non ho ancora capito bene. Non è così che si scrive una porno ricetta, ci vuole grazia, dolcezza e … Eppure la prima regola per un bravo scrittore è scrivere di cose che sa. Non dovrò far altro che raccontare il mio modo di cucinare, e il gioco sarà fatto.
Timballo sexy piselli e patate per due persone (ma anche tre, dipende dai gusti)
Ingredienti: un perizoma rosso, calze autoreggenti, grembiulino da cameriera francese anni cinquanta con pettorina, scarpe rosse di vernice – senza plateau – tacco a spillo minimo 25 cm.
Prima di tutto sabotate la televisione, gettate nella spazzatura tutti i giornali sportivi che trovate in casa, nascondete i cavi del computer e disseminate i divani di piccoli spilli da cucito. Vestitevi come delle zoccole da film softporno anni 70, passate davanti al pezzo di manzo (che dovrà essere consono al piatto che vorrete cucinare) da concupire e quando sarete certe che sul suo viso si sarà disegnato quello sguardo tipico che ha l’uomo quando ha appetito, andate in cucina, muovendovi con destrezza ed eleganza, ancheggiando. Arrivate davanti allo stipetto delle pentole, dopo esservi assicurate che il manzo vi abbia seguito, chinatevi a 90 gradi e divaricate un poco le gambe. Prendete un cucchiaio di legno e ritmicamente colpite il vostro manzo sulle chiappe, senza mai distogliere lo sguardo, prendetelo per i capelli (se il manzo è calvo so’ cazzi vostri) e sbattetelo per terra. Frustatelo. Poggiate uno dei vostri tacchi sopra il manzo, e nel frattempo prendete un padellino anti aderente. Frustatelo ancora. Versate un poco d’olio sul fondo del padellino e accendete il fornello; mentre continuate a schiacciare il manzo con i tacchi, prendete due uova, rompetele e versatele sul padellino. Non smettete di frustare il manzo, fino a quando la parte molle dell’uovo si sarà solidificata e il giallo centrale sarà diventato sodo. Salate, pepate, frustate ancora per sicurezza, e buon appetito.
Rita Pani (Io non ci credo che le donne son tornate il libreria a riempirsi di idiozia) APOLIDE
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9.27.2012

 

C'è un altro appello da firmare ... fa rima con vai a cagare


Questa volta no, non firmerò l’appello per avere una legge contro la corruzione. Il decreto anti corruzione giace nel Parlamento italiano da tempo immemorabile, rimandato per volere del pdl – il partito che la corruzione, già endemica in Italia, l’ha istituzionalizzata portando la mafia a governare lo stato; scrivendo ed approvando leggi che tutelassero l’ex corruttore del consiglio. Non firmerò l’appello per richiedere qualcosa di scontato.
Non ho mai compreso perché in una pineta dovessero esserci dei cartelli che proibivano di accendere fuochi. Non ho mai compreso perché in luoghi così belli da essere patrimonio dell’Unesco, dovessero esserci i cartelli che proibiscono di gettare rifiuti. Non comprendo perché un cittadino debba firmare l’appello perché si faccia una legge contro la corruzione.
Un conto è essere sodomizzati contro la nostra volontà, un conto e mettersi proni, abbassarsi le mutande, ungersi e facilitare il compito.
Come osano chiedere a me – e non a noi, scusatemi tanto, ma ho perso la fiducia – di affidare il compito di promulgare una legge contro la corruzione, ad un Parlamento che dovrebbe riunirsi in seduta dentro la sala mensa di un super carcere?
Come osano chiedere ad un popolo un gesto di responsabilità, quando lo stesso popolo è colpevole di aver affidato le redini dello stato nelle mani di una cosca mafiosa, di una banda di malfattori, che in maniera criminale ha demolito quei pochi fondamenti di democrazia e civiltà che eravamo riusciti a conservare dopo l’abbattimento di quella prima Repubblica, che in confronto alla seconda, sembra un asilo delle Orsoline?
Abbiano il coraggio di chiedere a Riina e Provenzano di riscrivere il 41 bis. Abbiano il coraggio di affidare alla Franzoni il ministero per la famiglia, a Briatore quello del lavoro, a Scapagnini quello della salute. Vada a Dell’Utri il trono della giustizia, e a quel tizio debosciato la presidenza della Repubblica. Si assumano una volta tanto la responsabilità dell’oltraggio e della sodomia.
Se non ho più voglia io di pensare alla Rivoluzione (che non è Grillo, giuro!) abbiano loro il coraggio di finire il lavoro che troppi italiani  hanno affidato loro. Lo facciano in fretta e tutto in una volta, e non con questo quotidiano stillicidio sfiancante, fatto di cronache di giornaletti asserviti, televisioni che fabbricano i mostri ai quali la gente si piegherà prona, proclami di propaganda che sembrano scritti da Perrault.
Chi alla fine riuscirà a restare vivo, avrà un buon motivo per conservarsi, chi soccomberà sarà finalmente in pace.
Rita Pani (APOLIDE)

9.25.2012

 

La scarpa giusta


Leggo tutti i giorni con molta attenzione, non tanto le notizie sempre uguali di questo universo parallelo nel quale siamo stati catapultati, ma i commenti della “gente”, quella massa idiota con due G. Qualche giorno fa la Polverini rischiava di essere messa al rogo, ieri invece, già i toni si erano ammorbiditi, gli animi erano rasserenati dal “gesto di responsabilità” che almeno “la rendeva diversa dalla maggioranza dei ladri”; poi ho letto anche che “probabilmente era da scusare visto che – sempre probabilmente – davvero non sapeva”.
Mettiamo sia andata così: l’arrogante fascista, quella degli elicotteri, del reparto ospedaliero requisito per il rispetto della privacy dei degenti che non sono stati ricoverati, degli abusi e dei privilegi, figlia di un sindacato inesistente che a suon di tessere fasulle riuscì – sotto egida berlusconista – a sedersi ai tavoli col governo, mentre i pochi sindacati seri venivano estromessi dalle trattative, va a fare un giro conoscitivo dai padroni del vapore. Questi le dicono di fare attenzione, perché magari non succederà nulla, ma di fronte a tanta merda persino l’italiano potrebbe smettere la partecipazione con un click di mouse, e scendere in piazza con l’intento di scannarli. Il governo tecnico fa notare alla burina fascista che dal momento che girano certe foto raccapriccianti – non solo le sue pagate con 75.000 euro di parcella al fotografo – che mostrano troie e maiali in lussuose porcilaie, queste potrebbero essere lesive per l’operato del governo stesso. Nel frattempo, l’opposizione ricorda i primi rudimenti della politica e fa quel che avrebbe dovuto fare anni addietro in Parlamento: si dimette in massa. La burina fascista per quanto idiota, comprende che in un modo o in un altro deve lasciare la sedia, il fotografo personale, l’elicottero e tutto il resto, e se ne va.
Dov’è il senso di responsabilità? Dove la non colpevolezza? Dove il senso della politica?
L’hanno cacciata a calci nel culo, ma le scarpe erano sbagliate. Non erano quelle dei cittadini del Lazio che vivono sui tetti da tempo immemorabile in attesa che torni il lavoro. Non erano quelle delle madri dei bimbi che non hanno accesso agli asili. Non erano le scarpe dei parenti dei malati che hanno vissuto scandalo dopo scandalo i tagli e le ruberie degli ospedali romani. Nemmeno quelle di chi ha subito un abuso da parte del governo fascista voluto fortemente perché era intollerabile avere come governatore una persona sostanzialmente onesta, ma dedita a differenti divertissement sessuali, che per quanto si voglia tirare al Vaticano, continuano a offendere anche il più bolscevico dei cittadini italiani.
Leggere i commenti a questa notizia, comunque, è la cosa più sconfortante. Lascia sospettare che veramente in pochi si sia rimasti interdetti davanti alla promessa di Batman che si ricandiderà, e soprattutto dà la certezza che ora la televisione contribuirà alla necessaria operazione di restyling della Polverini stessa. Lavaggio, cera e grafitaggio e via, pronta per le prossime imminenti elezioni. Così pulita e brillante che sembrerà nuova e pronta per un altro mandato. E non certo di cattura.
Rita Pani (APOLIDE)


9.20.2012

 

In galera, governo maiale!


Cosa si potrebbe aggiungere sul caso polverini, che già non ci abbia disgustato, fatto ridere o incazzare? Tutte le battute – anche le più esilaranti – sono già state scritte o dette. E tutte le minacciose indignazioni vomitate da ieri, in ogni angolo del Web dopo la pubblicazione delle immagini della festa grecoromana, con la governatrice sorridente in mezzo a porci e mignottone. Il popolo si unisce al grido di: “In galera!”

Macché galera! Gentaglia così anche in galera avrebbe una vita differente; troverebbe il secondino idiota, pronto a riverire. Ci sarebbe quello che una mano la dà, ma in cambio di danaro. Le celle non sarebbero quelle riservate agli ultimi, stracolme di vita umana e odore di umanità. Avrebbero le celle protette dallo sguardo accusatore di chi la galera, magari, la sta facendo da innocente.

Gente così dovrebbe davvero essere condannata, alla normalità delle condizioni di vita che loro stessi, con la loro condotta disonesta hanno creato per noi, ultimi e dimenticati. Dovrebbero essere condannati a una condizione tale che insegni anche a loro, come ha insegnato a molti di noi cosa significhi la mortificazione di non poter provvedere a sé stessi, e peggio ancora alle loro famigli. Nemmeno la fatica del lavoro, ma la mortificazione della disoccupazione.

Il terrore di non riuscire a trovare i soldi per curare i loro cancri, l’umiliazione di giacere su una barella nel corridoio di un ospedale al quale hanno sottratto i fondi per finanziare le loro feste eleganti e signorili; senza la carta igienica e senza l’acqua – tolti dal budget dei reparti ospedalieri, affinché loro travestiti da maiali potessero far scorrere fiumi di champagne.

A loro dovrebbero essere espropriate le case acquistate con i soldi rubati alla collettività, e condannati a vivere nei quartieri popolari fatiscenti, costruiti in cartongesso, con la muffa che avvolge ogni cosa, compresi i polmoni di chi ci vive dentro.

Non può esservi galera peggiore per questa feccia, se un drammatico e repentino risveglio che li riconduca nel mondo che hanno creato.

Demagogico e populista? Può essere, ma c’è un ma. C’è il popolo italiano che comunque continua a leggere le “riviste patinate” alla ricerca delle notizie e delle fotografie di queste facce di merda, che continua a guardare a loro come un credente guarda l’immagine della Madonna, che tutto sommato ancora sogna, un domani, di affrancarsi dalla povertà per vivere finalmente nello stesso mondo dorato, fatto di lusso pacchiano, opulenza e sazietà.

E, non scordiamoci quale trattamento, lo stesso popolo riservo al povero Marrazzo, reo d’essere stato solo un po’ cretino e di aver prestato fede al capo dei capi, il capostipite della peggior feccia italiana, quella che promette di dimettersi ma non lo farà mai, certa proprio che nessuno domani mattina, andrà a cacciarli forcone alla mano.

Rita Pani (APOLIDE)

9.19.2012

 

Un poco di masochismo


Il momento più tragico della mattina è quello del risveglio, quando ancora non del tutto desta, prendo il mio secondo o terzo caffè davanti alle pagine dei giornali virtuali. Sfoglio, leggo i titoli, sorseggio e finisco sempre per domandarmi quale strana depravazione masochistica, mi conduca ogni giorno a far ciò.
A volte sorrido, ma è uno di quei sorrisi che si spezzano appena disegnati sul mio volto. “Non c’è nulla da ridere!” suona l’intimazione nella mia testa, che senza neppure accorgermi ha iniziato a scuotersi pian piano; dicendo no.
“Commovente discorso di Renata Polverini al Consiglio Regionale.” No, dai! Commovente? Oh sì, che dolore scoprire dei furti di Fiorito. Ma come è possibile che un suo uomo abbia potuto “distrarre” (Rubare è così plebeo!) del danaro per pagare ostriche, champagne e zoccolette travestite. Lei è affranta e minaccia le dimissioni (si usa così tra le persone perbene italiane. Dimettersi è plebeo, minacciare le dimissioni di gran classe) che assunse l’incarico per rimettere ordine soprattutto nella sanità. Commuove, poi quando parla del suo cancro che è stato estirpato così come estirperà quello del malaffare. La commozione aiuta a dimenticare i 30 posti letto e il reparto requisito per il suo intervento chirurgico. La commozione aiuta a scordare i suoi spostamenti in elicottero. E tutte le altre distrazioni effettuate dalla signora Polverini, l’arrogante fascista, che come molti di questi parassiti assunti alla corte dell’ex tizio Re, ha confuso la sua poltrona pubblica con un trono imperiale. Poi però leggo un altro giornale e cambia l’aggettivo: la seduta del consiglio non è più commovente, ma drammatica.
In realtà quel che cerco sui giornali è la sensazione di comprendere a che punto siamo, politicamente. Ma giorno dopo giorno sparisce dalle pagine virtuali anche il più vago accenno alla campagna elettorale presente. Nemmeno più ci è dato sapere chi abbia mandato a fare in culo chi, (che questa era la politica fino a qualche giorno fa) di certo non mi illudo di trovare dichiarazioni programmatiche, impegni per le riforme strutturali in materia di scuola o lavoro. Son spariti persino gli operai sopra i silos, i fumi di Taranto, i licenziamenti di massa, la negazione dei diritti dei lavoratori. C’è Marchionne, però: l’uomo che nel 2013, finiti i suoi impegni con lo stato italiano che lo ha foraggiato con danaro nostro chiuderà la FIAT. Questo lo affermo io, ovviamente, perché non so nulla di economia. Lui invece dice che terrà in vita la fabbrica italiana con i proventi ricavati in America. Mi viene il sospetto che non sappia nulla di geografia e che si sia confuso: voleva dire Serbia. Là è un bel posto per aprire le fabbriche di auto italiane. Lo stipendio di un operaio serbo equivale a una comoda rata per pagare la 500L che ovviamente, nessun operaio italiano potrà acquistare.
Il masochismo mi fa innervosire, e allora meglio spaziare con le notizie estere. L’America predispone una sorta di set cinematografico in mezzo a un deserto per addestrare un corpo speciale di soldati da dedicare alla guerra contro gli zombie. (Spè che la rileggo, che forse il terzo caffè non è bastato) Sì, un corpo speciale capace di affrontare un ipotetico virus che renda l’umanità degli zombie; avevo letto bene. Medici, ricercatori, scienziati a fianco dell’esercito per studiare strategie e armi non convenzionali. Per gli zombie. Sto quasi per ridere ma poi ci ripenso: se passata la fase di studio dovessero cercare un popolo sul quale testare le nuove discipline, indovinate un po’ chi sarebbero i primi zombi a crepare?
Rita Pani (APOLIDE)


9.16.2012

 

Voglio andare a vivere su Facebook


Ho deciso. Voglio andare a vivere su Facebook. Io, che detesto il genere umano, ho trovato là quella società perfetta che tutti dicevano non potesse esistere. C’è eccome! Ma è inutile continuare a cercarla nelle pieghe della vita, perché sta là: tutta su Facebook.
Su Facebook la spazzatura non ci si limita a riciclarla e a riporla nell’apposito cestino. Su Facebook la spazzatura si riutilizza, si fanno fiori con le lattine, posacenere da passeggio con i rotolini di cartone della carta igienica, si mangia sano e non OGM, si amano gli animali, e i bambini, si adorano i vecchi e i malati, non ci sono barriere architettoniche e a nessuno, su Facebook, verrebbe mai in testa di parcheggiare sopra il marciapiede.
Su Facebook, la civiltà è una questione di principio, e se appena, appena ti scordi di esserci, e ti esprimi normalmente, come si fa in questo postaccio che chiamiamo mondo, la società civile feisbucchiana, ti sbrana, ti mette al muro, ti minaccia, ti denigra, va giù pesante di delazione, posta le tue foto col dito nel naso, o peggio, quella vecchia di quando avevi le scarpe fuori moda, e rende giustizia alla civiltà.
Voglio vivere su Facebook. Gli uomini sono splendidi, hanno un occhio azzurro o marrone circondato da ciglia lunghe come quelle di Bee Bip. Hanno un braccio muscoloso che fa paura e nello stesso tempo attrae. Gli uomini su Facebook, a volte hanno il gonfio dentro le mutande e non si vergognano a mostrarlo, perché su Facebook tutti possono essere liberi di essere belli, e pure di più. Anche i bambini su Facebook son tutti belli e profumati, lo si legge nei commenti delle fotografie, dove mai nessuno scriverebbe “Suvvia! Ogni scarrafone è bello a mamma soja.” Non lo si fa mai, e anche le donne son tutte belle. Persino io. Le donne hanno tutte le tette, camminano tutte elegantemente su tacchi altissimi, e nessuno le invidia ma anzi! Le donne, su Facebook si complimentano con le donne per l’altrui bellezza, l’altrui intelligenza e soprattutto, al contrario di questo mondo infame che ci ostiniamo a voler chiamare reale, le donne sono felici per la felicità delle altre donne. Un paradiso.
Su Facebook non ci si perde in chiacchiere banali con gente ignorante o superficiale; si citano filosofi impegnati, poeti, scrittori del passato, si ascoltano le belle canzoni di una volta, si hanno persino opinioni e tutti possono essere artisti, poeti, santi e navigatori. Lo si capisce dai commenti che tutte le cose su Facebook sono importanti.
Facebook è il regno dell’amore, fraterno o amicale; amore universale. Mai avuto o dato tanti baci e abbracci in questo mondo peregrino. Mai tanto amore sincero. Su Facebook non ci si manda a fare in culo, o a cagare, ci si vb e ttb. Che in questo mondo ingrato, davvero se dici a qualcuno di volergli bene, ti guarda storto e sorride come si sorride ai matti. Tutti ti dicono Buongiorno, buon pomeriggio, buonasera, buonanotte, buon appetito, buon pisolino, buon proseguimento … mentre qua nemmeno il vicino di casa ti guarda in faccia mentre esci per strada, e al massimo a tavola ti senti dire: “Tu! Passami il sale.”
Ma soprattutto voglio vivere su Facebook perché ogni giorno c’è una nuova rivoluzione da fare, ogni giorno c’è una cosa da imparare, sulla politica e sull’impegno, sulle battaglie che sarebbe bene esportare nel mondo reale, su ciò che ci succede accanto e non abbiamo mai voglia o tempo di vedere, perché non possiamo distrarci con le banalità della vita quotidiana, sottraendo il tempo alla vita su Facebook. Voglio tornare a fare politica attiva su Facebook, perché è l’unico posto in cui la democrazia e la libertà sono ancora un valore imprescindibile, quasi quanto quello del diritto al lavoro, alla scuola e alla sanità. L’unico posto in cui finalmente è un’opinione anche quella di non avere opinioni. Il mondo perfetto in cui anziché pensare è sufficiente condividere il pensiero di qualcuno che l’ha formulato appena un momento prima di te. L’unico posto in cui vige la democrazia dal basso, quella in cui ognuno è padrone nella pagina sua.
E poi su Facebook ci si può stare in mutande e far andare ben vestito il tuo avatar, e non si stira, non si lavano i piatti, non si passa l’aspirapolvere, non si stendono i panni, non si riordina la casa … ma puoi sempre dire: Buonasera a tutti, minchia se son stanca!
(Devo dirlo che c’è dell’ironia/autoironia? Forse sì, perché su Facebook a volte non si capisce)
Rita Pani (APOLIDE)




9.15.2012

 

Professore, cosa farà da grande?



Illustre Professor Monti,
l’altro giorno ho letto della sua indecisione per ciò che concerne il suo futuro, e ho pensato di scriverle per ringraziarla, come sento di dover fare ogni volta che ogni illustrissima et onorevolissima figura istituzionale, dona una perla di speranza al cittadino.
Saperla indecisa del suo futuro, immaginarla seduto in ciabatte sulla sua poltrona a guardar fuori dalla finestra, domandandosi: “Cosa farò da grande?” aiuta anche chi come me, si sente ormai fuori da qualunque gioco, e cancellato da ogni possibile disegno del futuro. Sto per compiere quarantotto anni, e già che lei si avvicina alla soglia dei settanta, è lecito sperare.
Tornerà ad insegnare alle giovani menti italiche devastate, o preferisce un futuro nell’italica politica, forte dell’esperienza maturata in questi anni, in compagnia della combriccola da lei radunata per infliggere il colpo finale, dopo l’erosione lenta e sistematica dell’ultimo ventennio? È un bel dilemma, lo comprendo, e nemmeno vale la regola del mal comune mezzo gaudio, perché a ognuno il suo, a ognuno la sua croce.
Il suo tormento guardando al domani, Professore, la rende simile ad ognuno di noi, ed anche per questa sua umanizzazione, la ringrazio. Per me era diverso fino a qualche giorno fa, perché perso l’ultimo lavoro mi ero arresa. Persi quei 352 euro mensili che guadagnavo e che almeno mi consentivano di pagarmi l’unico vizio rimastomi, senza dover chiedere al mio compagno di comprarmi il tabacco, mortificandomi ogni volta, avevo smesso di sperare dedicandomi più concretamente a disperarmi per la mia figlia minore, che a differenza della sorella, ancora non si è risolta ad emigrare, lontano da questa landa desolata che abbiamo pesantemente contribuito a disboscare, lasciandovi liberi di pensare al vostro futuro. Soltanto al vostro.
La ringrazio col cuore in mano, Professore, per avermi esentato dal dover essere rispettosa delle leggi, delle istituzioni, e dei diversi. E i diversi, per me, son quelli come lei e come la schiera ormai troppo lunga di parassiti dello stato, attaccati alla nostra vita come gli acari in un tappeto. La ringrazio per la sua diversità. Per la capacità che ha di farmi sentire migliore di lei, legata ancora alla civiltà che porta rispetto per l’altrui, e che mi rende capace di essere sensibile all’altrui.
Ci faccia sapere al più presto, Professore, quando avrà deciso cosa vuol fare da grande, così che finalmente anche noi si possa prendere la nostra decisione sul futuro. Ci dica se tornerà ad insegnare per tirar fuori dalle università un nuovo esercito di parassiti del capitale collettivo, o se invece lo governerà sputando in faccia alla fatica della sopravvivenza. La prego, ci dica ancora che lo statuto dei lavoratori ci impedisce di lavorare. Ci dica che lo sciopero va abolito, e ci spieghi ancora che solo con la produttività di un popolo di schiavi, si potranno risollevare le sorti di questo paese.
È davvero molto probabile, che se insiste ancora un po’, finalmente apprenderemo la lezione e lavoreremo – davvero – per il nostro futuro senza catene.
Rita Pani (APOLIDE)

9.10.2012

 

500 operai a Roma


Un paio di candelotti falsi sotto un traliccio non servono a salvare il lavoro. Non servirebbero nemmeno quelli veri, in realtà; ci vorrebbe altro, meno pericoloso, meno cruento, forse persino più bello da vedere. 500 operai dell’Alcoa in questo momento saltano e strillano, incazzati a Roma. Sono là – recitano i giornali con enfasi – per seguire la trattativa. Quale trattativa? Quella che stabilirà di che morte devono morire, in base ad accordi in precedenza assunti con la proprietà della fabbrica.
Se oggi, in Italia, nemmeno l’ultima fabbrica di chiodi fosse stata aperta, se fuori da ogni cancello di ogni fabbrica piccola o grande, ci fossero stati gli operai a simboleggiare la solidarietà con gli operai dell’Alcoa, forse …
Se oggi per le strade fossero rimasti fermi i TIR che trasportano le merci in entrata o in uscita dalle fabbriche, a simboleggiare la solidarietà fattiva con un mondo destinato all’estinzione …
Forse se in questa sfida all’ultimo sangue si invertissero le parti, facendo sì che a condurre il gioco fossero gli ultimi, le cose potrebbero cambiare.
So da me di aver scritto delle idiozie, delle cose che odorano di antico; quei concetti superati dalla nuova visione politica delle cose, che stranamente ha dovuto inventarsi un mondo “globalizzato” per insegnare ai cittadini dello stesso mondo a diventare individualisti o settari. La classe operaia è stata abolita a suon di decreti avvallati dai sindacati, che a loro volta sono stati sostituiti da gruppi collaborazionisti asserviti ai padroni, e non più impegnati a tutelare il lavoratore e la sua dignità. Così siamo arrivati alla battaglia finale, quella di uno che vale uno che è contro uno, che pensa globalizzato, ma è pronto a salvare sé stesso pur sapendo che il suo salvataggio lo renderà schiavo.
500 operai dell’Alcoa sono a Roma. Sul web corre la solidarietà un tanto al chilo. C’è persino la diretta TV su Web che ognuno di noi potrà guardare con occhi diversi: chi pronto ad esultare ai primi tafferugli, chi pronto a sbraitare quando la Polizia dovesse attaccare  chi, alla fine elogerà la dignità di queste persone che pure incazzate, non hanno arrecato né danni, né disturbo alla città.
Poi riprenderanno la nave con una mezza promessa che li condurrà a Natale, o forse nemmeno quella, perché ormai è chiaro che anche l’industria in Italia debba finire di esistere. Staranno in piedi i camini della Marcegaglia, o di quelli come lei. Quelli che poi si incontreranno ancora a Cernobbio per il pranzo di gala. C’è di buono che tutto intorno, in quest’Italia solidale, si puliranno i cieli e nei campi nascerà ancora la cicoria.
Rita Pani (APOLIDE)

9.06.2012

 

Poi uccisero i librai


Dovremmo tornare a raccontare le storie ai bambini. Non tanto le favole, che finiscono sempre bene. Proprio le storie. Quelle cose che da piccola chiedevo al mio papà di raccontarmi, e che iniziavano con “Quando ero piccolo io …”
La comincerei dicendo che quando ero piccola io, c’erano dei negozi, a volte bui, a volte angusti dove si vendevano solo libri. Per quanto fossero così, proprio come descritti, profumavano di libri, e la polvere non faceva starnutire. Perché quando ero piccola io, non eravamo ancora tutti allergici, come oggi.
Il venditore di libri si chiamava libraio, e li aveva letti tutti quelli che aveva nel negozio, e te li consigliava, perché ti conosceva e sapeva i tuoi gusti, oppure perché sapeva leggere il tuo bisogno nello sguardo confuso che posavi su questo o su quello, attirata dal titolo d’oro o dall’immagine in copertina: quasi mai una tetta, o una calza a rete dentro una scarpa di vernice rossa.
Era un bel posto, la libreria, dove si entrava anche solo per curiosare, o per cominciare a desiderare il prossimo libro che avresti comprato.
Quante volte tenni in mano “Metello”, me lo ricordo ancora, e più leggevo la sinossi, più mi decidevo a volerlo. Lo ebbi poi, e lo amai. Fu proprio leggendo Metello che decisi che io, nella vita, avrei scritto i libri, e poi li avrei presi in mano dentro la libreria, e ne avrei discusso col libraio.
Lo scrittore era il mestiere, e per imparare a farlo – pensavo – non avrei dovuto fare altro che leggere libri e leggere libri, e parlare con i lettori dei libri e con i librai. Poi scrivere. Le cose che avevo da dire, le storie che avevo da raccontare.
Quando ero piccola io il libraio era proprio un bel mestiere, e ancor di più lo era lo scrittore. Moravia era uno scrittore, e c’era in giro anche qualche sua fotografia davanti alla macchina per scrivere. E la Maraini, che l’aveva tanto amato. Lei era una scrittrice, e c’erano anche le sue fotografie. E anche della Llera che l’aveva amato anche lei. E quando ero piccola io c’erano i libri, e sono sempre uguali, anche oggi: Metello è sempre là, non più lo stesso, ma un altro con le stesse parole, sulla mia libreria. E anche Il ritratto di Dorian Gray è diverso nella copertina, ma uguale anch’esso nella sua storia che non tramonterà mai.
Poi io divenni adulta e un avvocato senza scrupoli fece avere la Mondadori a un criminale dopo aver corrotto i giudici, derubato il legittimo proprietario, e i libri non ci furono più, perché morirono prima i librai.
Iniziò una nuova moda, che era quella di comprare i libri al supermercato. Si prendevano insieme a un pacco di pasta e un tubetto di dentifricio, persino a quattro rotoli di carta igienica, magari di Hello Kitty, che è più bello detergersi dopo aver defecato.
Oggi il libraio è un disperato che mantiene aperto il suo negozio per passione, così come è disperato lo “scrittore” – quello vero – che si ostina a scrivere le storie che vuole raccontare.
Oggi è tutto cambiato, perché è il mondo che ci hanno cambiato per primo, proprio dopo aver ucciso i librai.
Il libro – mi spiegano – non è più “un libro”, ma un oggetto di marketing dal quale può nascere il merchandising. Così il libro si può trasformare in brand, e creare altro danaro divenendo un logo …
Lo scrittore – mi dicono – non è importante che sappia scrivere, perché tanto ormai la gente non legge più. Lo scrittore – mi dicono – deve sapersi vendere per diventare egli stesso un brand.
Brand?
Tutto questo, quindi, è potuto accadere, penso, proprio perché hanno ucciso i librai. E io che ostinata nuoto sempre contro corrente, ho deciso che mi conserverò scrittrice, così come mi ha insegnato ad essere papà, che amava i libri e mi raccontava le storie, e Pratolini che sapeva scriverle meglio di me.
Rita Pani 

9.04.2012

 

Nichi che vuole sposarsi


La non notizia di oggi è che Nichi vuole sposarsi. La schifezza odierna è che un telegiornale (libero per finta, pagato dagli utenti di Sky) abbia sentito l’urgenza di inviare un giornalista a Terlizzi (Bari) per chiedere alla gente del posto: “Vendola ha detto che vuole sposarsi, lei, cosa ne pensa?”
Il tono era quello di chi pone una domanda tanto ridicola, quanto assurda: “Dicono che berlusconi sia bello, giovane e onesto …” insomma, una cazzata.
Lo stesso telegiornale, scommetto, avrà giornalisti contriti quando dovrà raccontare del prossimo ragazzo gay massacrato di botte in strada; e quella sarà la notizia capace di smuovere le coscienze, un momento almeno, e porterà la gente a dire: “Poveretto, che bestie!” per poi sentir qualcuno aggiungere a mezza bocca: “Però, baciarsi per strada … un po’ vuol dire cercarsela.”
E peggio la prossima donna violentata (fatti che di solito abbondano nei giornali e nei telegiornali, in prossimità dei periodi elettorali); anche in quei casi si discuterà molto, e si creeranno movimenti e moti d’opinione … però queste donne, un po’ se la cercano. Vanno in giro mezze nude.
Nichi vuole sposarsi! Doveva essere una di quelle cose a cui si aggancia un sonoro: “E sti cazzi?” invece no, bisogna addirittura promuovere un sondaggio per vedere cosa ne pensano gli italiani, non dei diritti di persone con una particolare identità sessuale, ma proprio di lui: di Nichi Vendola che vuole sposarsi.
Ma è anche vero che questa mattina alla radio sentivo una filippica contro i venditori ambulanti “che vendono orribili merci fluorescenti davanti al Colosseo” che andrebbero mandati via tutti, questi del Bangladesh. Venti minuti dopo alla stessa radio, ho sentito un tale molto preoccupato per il “telefono nero” offerto da forza nuova di Ravenna, per un aiuto militante ai cittadini italiani vessati dagli extracomunitari. Puoi telefonare, denunciare il cingalese che deturpa il Colosseo, o il bangla che vuole un euro al distributore automatico notturno.
Forse la voce dello stesso speaker risulterà tremula, quando dovrà raccontare dei poveretti “senza nome” colati a picco appena avanti Lampedusa?
È vero, i problemi del paese sono altri: la fame, il lavoro, l’economia, la sanità, la casa.
Eppure son tutti problemi che potremmo risolvere quando risolveremo l’unico, che quasi nessuno cita mai: la scuola.
Fino a quando continueremo a crogiolarci nella semplicità di un’ignoranza, o di un sapere preconfezionato, che non lascia spazio alla creatività che solo dà la curiosità di conoscere, rimarremo esattamente dove siamo, a far finta di essere partecipi della vita che attraversiamo, inerti.
Rita Pani (APOLIDE)

9.03.2012

 

George Bush, non era poi così cretino


Governo e decreto sanità, quasi certa la cancellazione della tassa sulle bibite POLITICA L'esecutivo lima il decreto … L’ho presa da un giornale a caso.
Mi ricordo, qualche anno fa, che la California bruciava devastata dagli incendi. Un giorno, saltò in piedi l’allora presidente idiota George Doppiovvu Bush, e annunciò la sua strategia ai media: “Stavo pensando,” disse, “che per risolvere il problema degli incendi in California, si potrebbero tagliare gli alberi.” Ridemmo molto sul web; Bush figlio quando non decideva i massacri per depredare i pozzi petroliferi altrui, era simpatico nella sua totale stupidità.
Oggi mi ricredo, forse non era stupido, ma era solamente uno statista, perché non può essere che la stupidità sia diventata conditio sine qua non, perché si possano occupare le sedie più importanti per il governo delle nazioni, del mondo intero.
Sempre più sono portata a pensare che i cretini, quelli veri, si sia noi.
Qualche giorno fa Letta, il nipote idiota dello zio furbo, ha annunciato la strenue battaglia per salvare “il chinotto e la spuma bionda”. Abbiamo riso molto sul web, e in effetti anche qua a casa. Ma oggi i giornali annunciano l’imminente revisione del decreto sanità, con la vittoriosa cancellazione della tassa sulle bibite – quando non espresso meglio col più tecnico “bollicine.” Il decreto che ci impedirà di curarci, di prendere i farmaci, che sfoltirà la popolazione meno abbiente e più malata, potrà comunque continuare a bere gazzosa.
Siamo ormai come gli alberi di Bush.
Le piccole vittorie che fanno grande questa politica insensata, idiota e surreale, alimentata da scontri fasulli sul nulla, che a loro volta alimentano i pascoli delle greggi che rispondono ai fischi dei loro pastori. Chi resta in piedi e immune, libero con la mente, si guarda intorno alla ricerca di un buon senso comune che non trova, in una quotidianità difficile che ci sta insegnando con metodi intensivi a sopravviverci.
Clini che sommessamente dice che il lavoro va tutelato ma solo se c’è una prospettiva, proprio come se dovessi essere io, a creare la prospettiva per cui lui possa assicurarmi il lavoro. Un nuovo concorso per i docenti della scuola, mentre da oltre trent’anni gli insegnanti sostano precari, garantendo la diseducazione degli alunni: “D’ora in poi in cattedra solo mediante concorso”. Quasi non sapesse, quest’altro genio prestato alla “politica” che illo tempore anche i precari della scuola, per essere inseriti in graduatoria dovettero partecipare a un concorso. “Bisogna aiutare le grandi imprese per le grandi opere. Premiare le imprese che hanno lavoratori. E qua, quella scienziata della Forsero dovrebbe fare i nomi delle imprese che si reggono senza lavoratori, perché ci sono persone come me, contorte, che potrebbero pensare che la Fornero si riferisse a quelle imprese che hanno i lavoratori in nero, o –per essere corretti e precisi – gli schiavi. E qualcuno l’ha sussurrato il nome di un paio di grandi opere: Il ponte sullo stretto, e la Salerno Reggio Calabria.
Chiudono i negozi, dice l’Istat, e c’è preoccupazione. Poi si legge il dato positivo: La disoccupazione fa sì che ci s’ingegni e quindi nascono piccole imprese come riparazioni, parrucchiere, assistenza sanitaria domiciliare. Soprattutto in mano ai cinesi …
E qua mi fermo, perché in confronto a questi professori, George Doppiovvu Bush, può sembrare un premio Nobel.
Rita Pani (APOLIDE)

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