8.31.2011

 

In nome di dio Danaro


“Non sono un libertador. I libertadores non esistono. Sono i popoli che si liberano da sé.”

Lo diceva Che Guevara, e a me piacerebbe crederci, solo che ormai non è più così nemmeno questo. Ci sono popoli e popoli, gli uni più fortunati di altri perché hanno abbastanza risorse da essere offerte in sacrificio per l'unico dio che davvero governa questo mondo, e le vite di ognuno di noi: il dio danaro.

È bastato che Gheddafi una sera scorreggiasse, per far scattare in piedi il mondo con le sue macchine di guerra, in Siria i carrarmati macinano vite umane, l'esercito – denuncia l'ONU – spara sui bambini, e almeno dieci son stati trovati, morti e rigidi come pietre, ma a noi non importa. Noi, mondo civile e attento ad esportare democrazie, iphone e hamburger un tanto al chilo, della Siria ce ne freghiamo.

Oggi c'è una taglia sulla testa di Gheddafi, e non per prenderlo vivo o morto come si usava fare nel far west, ma preferibilmente morto, come si usa oggi per affrancarsi da ogni possibile imbarazzo futuro. A un morto nessuno potrebbe mai chiedere conto di quell'anello baciato, dell'elemosina richiesta per salvare le banche o una squadra di calcio – forse due – delle duecento ragazzine assoldate attraverso gli uffici casting di mediaset, a settanta euro al giorno, per far finta di interessarsi alle bizzarrie di un vecchio malato di megalomania e potere, idolo e amico di un altro pervertito, che in principio non lo volle disturbare al telefono, mentre la Libia esplodeva.

Non vi è nulla di certo e deciso sul futuro di Assad, il quale promette riforme e rade al suolo centinaia di vite umane con le bombe. Ci sarà l'embargo – forse – si farà finta che il petrolio prodotto in quello stato, non si debba più comprare. Si ritirano gli ambasciatori, in segno di protesta e in favore della propaganda che deve farci scordare.

Come ormai ci si scorda dell'Afghanistan, dove orma si esiste solo se si muore, perché pure se un soldato resta ferito (due anche ieri) è sempre meglio tacere, e non ricordare i danari sprecati per far tagliare la barba a un popolo a cui la barba piaceva, e forse anche la proprietà delle loro terre e delle loro tradizioni.

Gheddafi è un bastardo, violentava le amazzoni, quelle che tante fantasie fecero scaturire nella mente malata del tizio suo amico, che gli baciava l'anello, che gli montava la tenda, e che gli prometteva danari e strade, in cambio di lager nel deserto, dove gettare la spazzatura umana sgradita alla lega di borghezio, bossi, maroni e calderoli. Ora si dice che sì, è un diritto ucciderlo, e si gode nel vedere l'orripilante gusto kitsch delle ville depredate dai ribelli – come sempre accade per ogni dittatore caduto.

In Kenia sostano 400.000 anime vittime dimenticate di una guerra dimenticata. Sono somali, proprio come quelli che troppo spesso muoiono nei nostri mari, per essere a volte ripescate a pezzi insieme al pesce che mangeremo domani, fresco e di provenienza italiana, così pregiati che spesso non possiamo nemmeno permetterceli.

In Darfur un volontario di Emergency è stato rapito, e la Farnesina fa sapere che “è un sequestro anomalo”, che è comunque una forma più elegante di “non ce ne importa una mazza”.

Ernesto Che Guevara diceva anche che vale un milione di volte di più la vita di un solo essere umano, che tutte le proprietà dell'uomo più ricco della terra.

E mi fermo così, in attesa di altra pace e di altra democrazia, senza libertadores, ma con la speranza di tornare ad essere popolo almeno un po'.

Rita Pani (APOLIDE)


8.30.2011

 

La grande manovra


Dice: “Ma della manovra economica, se ne deve parlare …” ed è vero. Solo che verrebbe più facile, se solo ce ne fosse una. D'altronde siam passati da la crisi non c'è, a forse c'è ma non si vede, al cuore che gronda sangue per la sorte dell'italiota, fino all'ultimo: “Yuppy!!! La manovra economica, senza neppure una tassa in più.”

Quindi come se ne parla di questa ennesima buffonata, dettata da un manipolo di criminali coadiuvati da un altro manipolo di inetti ed imbecilli? La mia regola sarebbe quella di attendere con i gomiti posati al davanzale della finestra. Attendere di vedere quel che accadrà, quando finalmente cadranno le banche.

E poi che noia! Manovra iniqua, che va a toccare le tasche dei lavoratori, sempre i soliti … Perché davvero qualcuno aveva creduto che avrebbero tassato loro stessi? Oppure qualcuno ha pensato che la geniale idea di calderoli, di tassare chi non paga le tasse, potesse essere la panacea?

Eppure io l'ho letto: “Finalmente! Ci sarà il taglio dei deputati.” Non viene benissimo spiegare che in questa manovra economica non vi è nulla di sensato, se non un po' di populismo e un briciolo di demagogia, che gli unici soldi reali saranno quelli che pagheremo noi, e che il resto sono numeri a scadenza nel 2013, probabilmente sperando nei maja.

Non so voi, ma ho letto poco fa una dichiarazione di scajola, il quale ammette sì di non aver venduto la casa che qualcuno pagò a sua insaputa, ma – a mo' di scusa e pentimento – continua: “ci dormo soltanto”. È così che mi è venuta un'idea piccola, piccola, per risanare il debito pubblico ed avere anche qualche avanzo: “Trattare tutti i proventi dei furti di stato, anche quelli sanciti e istituzionalizzati dallo stesso governo, come fossero beni sequestrati alla mafia”. Solo facendo un calcolo di ciò che sappiamo, dalle tangenti a questo o quello, le case, gli stipendi che certi notabili potevano attribuirsi su contratti stipulati in bianco, i milioni e milioni pagati per ricatti, estorsioni, e tutto il meglio di cui la politica italiana ci ha abituato nell'ultimo decennio di barbarie, i conti sarebbero a posto e molto di più.

Rita Pani (APOLIDE)

8.29.2011

 

Due cose sulla felicità, che sono meglio di una sulla manovra economica.

È come fare ammenda per ogni volta che ho detto o scritto, con convinzione: “No, la felicità non esiste!” Non c'era dolo – questo no – ma la convinzione che avessero ragione i poeti, quelli miei, dei suoni tristi dei violini, dei piedi nudi tra le spighe del grano, che a lungo hanno governato l'arte e la realtà delle mie essenze.

Solo che loro erano poeti, e quelli come me, invece, non sapevano leggere.

No, non che vi sia idillio tra me e la felicità, e in fondo è bene – penso – ogni tanto farsi pungere i piedi dalle spighe di grano, affinché io non possa dimenticare come ci si cammina, ma almeno ora so che della felicità io non sapevo. Pensavo, in modo semplice, che la felicità fosse un istante, così effimero da poter anche essere trascurato, o quell'attimo in cui il viso potesse assumere una smorfia di soddisfatta gratitudine nei confronti di una vita assai poco generosa. La felicità – mi dicevo – è quando stai bene. E bene non era solo bene, ma quella sorta di nirvana che può darti solo l'incoscienza.

Ora son qua, che ancora non so quale sia la mia malattia, con tutta la rabbia che può provocare comprendere del mondo che è malato molto più di noi, e che vorrebbe ucciderti, numero tra i numeri di una sanità depredata e imbarbarita dalla storia, eppure io sono felice.

Ed è buffo, perché mi sembra ora che possa esser io – per una volta – a beffare la vita che è beffarda di per se. Credo che se una mattina non mi fosse suonata la sveglia, con quel suono orribile che certe parole sanno avere, non avrei mai percorso quel tratto di strada che mi ha portato a cambiare la prospettiva delle cose da vedere. Sarei rimasta là, a domandarmi di altre cose che non hanno risposte, sulla mancanza piuttosto che sulla pienezza di quelle cose semplici dalle quali mai mi son lasciata toccare.

Oh, sia chiaro, non sto dicendo che la vita sia meravigliosa, anzi, è proprio una merda, è solo che a guardar bene, ho trovato una miriade di piccole cose che ci stavano nascoste nel mezzo. Svegliarsi col sorriso la mattina, sentire il fresco di un respiro, non aver ansia d'arrivare perché sai che da qualche parte arriverai. Riconoscersi in un sorriso.

Poi chissà, magari il mio numero sarà cancellato, perché è così che ho paura quando sono felice. Ma me lo faccio bastare; chissà che un giorno io non possa anche svegliarmi ottimista.

Rita Pani (APOLIDE)

8.26.2011

 

Un gelato per l'eretico

Son ragazzi, il nostro domani e il nostro futuro, ed è bello guardarli nei loro 15 o 16 anni, tutti vestiti uguali, con i capelli tutti uguali. È bello stare ad ascoltarli in silenzio, magari ripensando con nostalgia ai tuoi 16 anni, che avevi così tante cose da fare, di scordarti persino di poterti innamorare.

I maschietti così poco uomini ma convinti d'esserlo al punto giusto, con le sopracciglia perfette e la ferita di un rasoio usato troppo presto. La femminucce che son già donne: e che donne! Loro sì hanno l'aria di avercelo già in mano, il mondo. Son decise e comandano loro il branco; loro sanno dove andare e cosa fare, quando la sera d'estate ti lascia un po' di tregua.

In gelateria si siedono sulle panche e attendono che il cavalier servente arrivi col cono al cioccolato da leccare, stando attente a far capire che forse, volendo, potrebbero anche farlo, i maschietti si agitano, ci credono, ma solo fino a quando la ragazza dalle movenze ormai andate non dice che le piacerebbe molto andare – e oh sì che ci andrà – alla discoteca poco più in là, dove, miracolo e meraviglia, ci sta tutta una squadra di calcio: “Tutti insieme?!?” e che stupore.

Son ragazzi che diventeranno uomini e donne, o che forse vengono proprio da là. Figli di una televisione che è stata capace di regalare un sogno a chiunque, persino al nostro domani. E la ragazza estrae il suo telefono, perché all'omino che ha seduto di fronte, che succhia un ghiacciolo come faceva quando era bambino, scordandosi della barba e delle promesse di una lingua al cioccolato, vorrebbe fare una fotografia.

“No, non devi prendermi quando sono in posa, ma all'improvviso, perché vengo meglio.” si ribella lui, e lei, offesa, racconta di Matteo, di quanto sia bello lui, che potrebbe fare tutto nella vita, il fotomodello o un provino per la TV. E il ragazzo non ci sta: “Matteo è frocio, e poi ha una cicatrice che va da qua a la. Sennò mica sarebbe stato così magro.” Ha carattere il ragazzo, con i capelli ritti sulla testa, e le sopracciglia meglio delle mie, e non ci sta. Mostra le gambe a un'altra ragazza, che studia per diventare donna, e fa del suo meglio per concupirla: anche lui promette. “Sono molto peloso, ma non peloso come un orso, vorrei farmi la ceretta ma non solo sulle gambe. Partendo dal petto, e lasciando una righina nera che arrivi fino a giù. Si usa così adesso. Forse me la farò.”

Sono belli questi ragazzi, e danno speranza nel futuro. Fuori dalla gelateria e tutto un leccare e succhiar ghiaccioli, altri piccoli uomini e piccole donne arrivano a far branco, tutti con le novità dei giocatori che stanno là – e tutti insieme – sospirano le fanciulle con la pelle lucidata. Ed è bello stare ad ascoltare, mente il pistacchio cola sulla mano, e la nocciola è quasi finita. È bello ripensare ai propri sedici anni, e ringraziare un dio – uno qualunque – per averti fatto nascere così diversa da fottertene se potresti sembrare un'autistica, che un giorno la diede a qualcuno perché era tempo di scoprire se fosse possibile anche amare.

Guardavo la gioventù seduta accanto a me, in una gelateria, poi finalmente deve essere arrivato Matteo, che in vero, uguale agli altri a me non è sembrato né più bello, né più brutto, con i suoi capelli ritti nel centro della testa, dove forse le radici hanno più spazio per nutrirsi, e non tutti erano felici del suo arrivo:
“Eccolo che arriva quello! È un eretico!”
“Cosa vuol dire eretico?” chiede uno un po' più curioso.
“Uno che non mangia.”
… E c'è speranza nel futuro. Davvero tanta, nei Maya.

Rita Pani (APOLIDE)

8.24.2011

 

Peggio di bossi


Ha detto quel tizio che l’Italia ci sarà sempre, e io francamente non posso che esserne felice, perché sono depressa, e quando sto così mi aiuto con un sorriso. Quindi leggo i giornali, m’informo sullo stato di avanzamento della decomposizione dello Stato – del suo stato – e sogghigno con gli occhi ormai spenti.

Ci sarà sempre questa Italia, e sarà sempre più bella e presentabile. Spesso ci si domandava a chi sarebbe toccato riprenderne i mano i fili della storia ancora da scrivere, e ora si aprono diversi scenari che tanto ci fanno sperare. Archiviata la barbarie dell’ignoranza leghista, e del malaffare berlusconiano si scrivono i primi nomi del domani: saya, scilipoti e Montezemolo.

Il 24 e 25 settembre prossimi, Genova, ai confini della realtà italiana, ospiterà la prima “kermesse illegale” del partito nazionalista (nazista) di saya – leggo. Sarà presentato il documento programmatico della nuova politica (cito) incentrato sulla sicurezza, ossia la guerra ai froci, alle troie, ai musi gialli e ai negri. Laddove non osò nemmeno il bossi, arriverà il nuovo modello italiano e patriottico. Anzi, in nome della Patria, assicura saya,  (cito) “verrà infilato su per il culo di bossi, un bastone dalla parte dell’aquila, per aiutare quel vecchio paralitico a stare in piedi”.

Ci sarà sempre questa Italia, che noi stiamo a guardare sempre più da lontano, pur arrancandoci dentro come sopravvissuti ad un naufragio. Ci sarà ancora lo scilipoti, il cattolico che pur essendo dell’opinione che tutti abbiano dei diritti, vede le uniche famiglie possibili quelle fatte da uomo e donna, ma si prepara ad un’alleanza con il partito nazionalista quello morigerato e per la morale, che ha in tasca la soluzione a tutti i problemi italiani, forse anche quello della riduzione in saponette di poveri e malati anche se non extracomunitari.

Montezemolo, s’ode a sinistra! Anche se Bersani non ci sta e chiede chiarezza: “Da che parte sta il nuovo messia?” In effetti non si capisce se stia a destra, a sinistra, al centro o solo concentrato su una riedizione del partito azienda: la sua. Ma il leader del PD si fa sporco e cattivo (cito): “Non siamo più in una fase pre-campionato”. E sono parole che pesano come macigni.

Qualcosa resterà di questa Italia, e forse un domani, se non creperò e avrò ancora voglia di occuparmene, magari mi troverò costretta a fare come i vecchi accanto al caminetto, rimpiangendo i tempi della gioventù, quando si aveva a che fare con un popolo cornuto che sposava le vacche, impugnava spadoni e anziché parlare spernacchiava. E nella perfetta regola del si stava meglio quando si stava peggio, nemmeno la lega ci sembrerà poi tanto male, dinnanzi a certa gente che solo in Italia (che spero finisca al più presto) poteva permettersi il lusso di esistere nell’illegalità, senza che a nessuno venisse in mente di azzittirli e carcerarli, e perché no fucilarli.

L’Italia resterà, sempre più uguale a sé stessa, pullulante di italioti, quelli stessi che in fondo hanno reso possibile tutto questo, resi ciechi dal danaro: quello che prima gli hanno promesso e quello che oggi non c’è più. Tutto il resto non conta, nemmeno la morte annunciata e riannunciata della civiltà.

Rita Pani (APOLIDE)

8.22.2011

 

Time out


Due mesi fa mi dissero di correre, e io corsi. Mi dissero la parola magica: cancro. Fermai la mia vita, perché per correre devi essere leggera, non puoi portarti i pesi di un'esistenza che ti schiaccia anziché sostenerti.

Di corsa andai da un medico – pagando – per la colposcopia e la biopsia. Una sorta di tortura, vissuta nel pieno dell'umiliazione che può darti stare con le gambe all'aria, mentre un uomo e una donna parlano di te come se fossi solo materia inanimata. E il dolore.

Mi dissero di correre, di non aspettare mesi, ma giorni. E io corsi, tenendo la vita ferma in un angolo, senza più nemmeno la capacità di formulare pensieri che contenessero un futuro più grande del domani. E sono ancora qua, senza nemmeno sapere quali siano stati i risultati della biopsia.

Un mese fa mi chiamarono per la visita preopeatoria, e io andai a farmi torturare ancora. Mi dissero che sarebbero passate quarantotto ore, al massimo dodici di più, e poi finalmente mi avrebbero tolto quel pezzo d'utero impazzito. Un mese, e sono ancora qua, che i pensieri ormai sono sempre gli stessi, che vanno a scontrasi con altri, quelli che non puoi prevedere e che ti disegna il destino e che sarebbe bello vivere con la leggerezza nel cuore, e non con gli incubi che la notte ti assalgono, perché l'unica certezza è che il cancro c'è, anche se non sai qual è.

Ora ero qua, che ci pensavo ancora. Tra qualche giorno gli esami, l'elettocardiogramma e tutte le altre informazioni del mio stato fisico non avranno più valore, dovrò rifarle, sprecare altro danaro pubblico, e soprattutto sperare che nel tempo della corsa, quelle cellule non si siano trasformate ancora. Perché, mi dicevo, se dovesse essere troppo tardi per non essere devastata, che farei?

Potei denunciare e far causa, mi dicono quelli che pensano bene. Come si fa in quest'Italia di merda, che forse tra vent'anni quando sarò morta, un giudice si ricorderà di me. O potrei fare come mi dice l'istinto, in un Italia che deve imparare a reagire. Andare là e dire a questi signori: “Sapete che c'è? Voi non avete fatto abbastanza in fretta il vostro dovere, e io soccomberò. Ma siccome sono buona, vi levo dal mondo senza farvi soffrire.”

Sì, lo so. La violenza mai, conserviamoci civili, resistiamo, etc. etc. etc. Si fa sempre una gran bella figura ad esser per bene con la teoria …

Rita Pani (APOLIDE)

8.20.2011

 

I discorsi della canottiera


È la politica del “si salvi chi può”, anche se a volte sembra la politica del  gioco della puzza; quello dei bimbi, che se la lanciano addosso con una palla. Poi è la politica della lega, di quel che resta di bossi e della sua canottiera da combattimento; quella che fa il paio con l’elmetto cornuto, le mucche da sposare e il tiro alla fune, che serviva per rassicurare e rivendicare l’identità del legaiolo medio.

Abbiamo atteso per anni il risveglio del popolo legaiolo, ed ora finalmente è arrivato non tanto dettato dalla presa di coscienza quanto dall’evidente e palese imbecillità di una classe dirigente dispotica e ignorante. Più ignorante del proprio popolo, che almeno non ha scordato come si fa a far di conto.

A quel che resta di bossi non è bastata la canottiera, questa volta, per rendersi uguale ai suoi sudditi che a loro volta sentono d’esser rimasti in braghe di tela. Non è bastato tornare negli abiti da combattimento che sfoggiò su una spiaggia sarda, a ridosso del primo tradimento del suo padrone, per ricondurre i legaioli alla “ragione”, ed è stato costretto a scappare nella notte, come un ladro, come un mago cialtrone al quale son scivolate le carte che aveva nascosto nei polsini, mentre si esibiva davanti a un pubblico adorante, a suon di pernacchie e parolacce – il suo stesso linguaggio politichese.

Ed è con una certa soddisfazione che questa mattina ho letto le cronache del “tour estivo” del bossi, che prosegue tra le terre del nord. I discorsi ignoranti di un imbecille. Non c’è nulla di più divertente di un imbecille che pensa di essere astuto. Tra un rutto e un altro, tra una pernacchia e un suono gutturale, quel che resta del deficiente torna a promettere pane e Padania, con l’unione dei popoli del nord che sarebbero lo stato più importante dell’Europa.

Ha detto che la Padania vuol dire “unito e libero”, e se lo dice lui al legaiolo non resta che crederci, anche quando sente alla radio, distrattamente, l’andamento della borsa di Milano o il suo stomaco che inizia a gorgogliare. Dice che è tutta colpa del sud che succhia le energie del nord, dice sempre le stesse minchiate, e le dice in canottiera, quando ormai anche l’ultimo legaiolo rimasto inizia a guardare con sospetto le corna che con orgoglio portava sulla testa.

È che ora che non c’è più nulla per nessuno, forse anche nel vuoto cosmico della testa del padano, inizia a rimbombare qualche domanda, sull’avannotto che divenne una trota da 10.000 euro al mese, sugli affari fatti con il tizio malavitoso del consiglio, sul sistema tangentizio che ha governato l’unito e libero staterello del nord, sulla banalità di una propaganda reiterata fino alla noia da chi prometteva pallottole e mangiava dalla mano di un criminale incallito, che tutto ha fatto per tener sempre piene le sue tasche, vuotando quelle altrui.

Il grande bluff della Lega è ormai scoperto, e a noi non resta che godere degli ultimi colpi di coda di questo manipolo di imbecilli arroganti. Abbiamo atteso, e la nostra pazienza è stata premiata anche oltre le nostre aspettative. Non può essere che un giorno felice quello in cui, a una cosa come quel che resta di bossi, non resta altro nemico da attaccare se non quella cosa ridicola di brunetta. Un demente che dà del pirla a un cretino, è meglio di un film di Mel Brooks.

Rita Pani (APOLIDE del sud)

8.11.2011

 

Quando cadono le stelle


Ciao, io sono qua. In tanti, come sempre, mi avete scritto perché taccio come se non avessi nulla da dire. Qualcuno, persino, mi ha accusato d'essere schiava di questo Ferragosto che sta arrivando, e che darà riposo anche a me. Ebbene, no. Di cose da dire ne avrei, ma sono sempre le stesse, così intrise di stanchezza che ve le risparmio. Perché dell'ovvietà dell'ignoranza leghista, del malaffare berlusconiano, del nichilismo della non politica italiana ne ho piene le tasche.
Son giorni in cui mi riempio gli occhi di cose belle, e alla sera ogni giorno di più mi innamoro, di uno sguardo o della risata dei miei amici e del loro amore. Guardo gli occhi tristi di un mondo che si rinnega, che si uccide, che si dispera al punto di fingere di essere felice e mi domando quando arriverà il momento del coraggio: quello che non sa mentire.

Era la notte di San Lorenzo, oggi, quella delle stelle che cadono per esaudire i nostri desideri … “Che potesse morire berlusconi domani!” e sarebbe un desiderio sprecato, perché quelli come lui non moriranno mai. Al massimo spariranno dalla nostra vita, nascosti in una capsula piena di azoto liquido in un mausoleo progettato da Cascella, dove se non fosse stato un misero servo infedele avrebbe trovato posto anche emilio fede – il suo cane – che invece di leccargli la mano gli ha rubato i danari. Un desiderio perso per quelli come noi, che della vita ci basta un sorriso, che il resto non ci appartiene, nemmeno vivere l'amore.

Io sono qua. Son passate settimane dalla mia visita dall'anestesista, quando mi dissero che in pochi giorni, forse due, avrei avuto la data dell'intervento. Son qua, e non so nemmeno quali siano gli esiti della mia biopsia, quella che ho fatto ormai quasi tre mesi fa. Avrei potuto chiedere ad una stella cadente, di far sì che le cellule non si dovessero ancora chiamare cancro; perché i medici non me lo hanno ancora detto e forse non me lo diranno mai. E aspetto senza nemmeno guardare le stelle, che stasera in questo mondo stranito fa pure freddo.

Guardo questo mondo deperire, attaccato, saccheggiato, laddove vive mia figlia, quella che all'estero pensavo al sicuro. Ascolto quelle frasi fatte banalmente, di gente che parla delle “nostre genti”, e inorridisco pensando alle genti altrui che muoiono in mare e riemergono solo per essere cavalcate da chi ha deciso di cogliere l'attimo per indossare l'abito pulito dell'altruismo, e passeggia dentro un cimitero. Uno di quelli così capienti da far sparire anche i morti.. Assisto alla guerra dei poveri con i poveri, e inizio a contare i morti di una guerra mai dichiarata, anzi, tenuta nascosta dalle immagini di un'estate che comunque deve essere sullo yacht di Briatore - che sa come salvare i pastori sardi dalla carestia, e sua moglie e suo figlio, che si mostrano caldi sotto il sole sardo, quello che a me, almeno per quest'anno è stato negato.

È la notte si San Lorenzo, e le stelle cadono o cadranno, come le borse, come l'economia, come la vita. E non sapremmo proprio che chiedere, se avessimo la fortuna di vederne spegnere una, perché anche essere felici, noi sappiamo, è una richiesta assurda quando non sai nemmeno se ancora per qualche tempo vivrai. “Speriamo che domani muoia berlusconi.” Questo ci resta da chiedere proprio come se non sapessimo che morto un padrino, se ne farà un altro, malgrado noi che pure la vita vorremmo averla e per questo sorridiamo alla Camusso che “minaccia” lo sciopero generale, come se fosse ancora una cosa seria.

Mi guardo intorno e so che forse, il freddo,.è solo un alibi per non farmi ammettere d'essere colpevole, di non aver più sogni da fare o miracoli da desiderare.

Rita Pani (APOLIDE)



8.07.2011

 

Crisi d'estate

Non è facile parlare di crisi, e meno che mai di una crisi che non c'è. E poi, nel mese di agosto, dove tutti fingono di essere in vacanza, anche coloro che in ferie ci sono stati mandati, siano stati essi in fabbrica o nelle università, alle poste o negli ospedali. Non è semplice poi, parlare di questa crisi, perché dato come ce la raccontano, a noi mai verrà in mente che ci possa toccare. Sembra quasi una partita da giocarsi tra loro, tra le borse e le aziende del tizio, tra i poteri forti e quelli fortissimi. Dicono molto affinché noi non si capisca un cazzo, e dobbiamo ammettere che ci riescono benissimo.

Sinceramente, sotto quale ombrellone di quale spiaggia italiana, in questo momento, qualcuno posati i racchettoni sta discutendo di S&P che avvisa che il downgrade USA può peggiorare? E ancor più sinceramente, oltre me, chi non sa che accidenti voglia dire, tecnicamente, oltre che ciò che immaginiamo, ossia che anche le loro banche sono col culo per terra?

E leggendo i titoli che interessano nello specifico tutti noi, non è che si vada oltre la cortina fumosa del nulla – anche se serioso e preoccupante - come deve essere il nulla che ci governa. scientemente lascia passare. “Ci dica … ci faccia sapere la verità … sulle reali richieste della UE.” E anche qua non so bene, se al mare, sotto l'ombrellone, ci sia qualcuno che sta domandandosi se il tizio sia stato o no “commissariato” o se con ancor più attenzione, si stia chiedendo cosa cacchio voglia dire essere stati commissariati dall'Europa.
È agosto, in fin dei conti, e tutto deve andare bene per forza. Lo ha spiegato il tizio, l'altro giorno, citando suo padre – a suo dire esperto di borsa – in realtà banchiere della mafia. Che cos'è la Borsa? Un orologio rotto, che va bene una volta al giorno (imbecille! Sono due). E poi lo ha detto bene, a chi si accingeva ad andare sotto l'ombrellone: l'Italia è un paese solido, proprio come le sue aziende, nelle quali ha ancora una volta invitato tutti ad investire.

No, non è certo il tempo di chiedersi conto del futuro molto prossimo, e di sapere anche l'altra verità, ossia cosa chiede davvero Confindustria a questo governo di truffatori e criminali? Per esempio di osare un po' più di quanto abbia fatto Marchionne, abolendo una volta per tutte lo Statuto dei Lavoratori, e legalizzando una volta per tutte la schiavitù, in modo che la crisi, quella vera diventi qualcosa che finalmente ci riguarderà davvero tutti, trasformando la povertà da mera percezione psicologica, in qualcosa di reale e tangibile, che ci faccia sentire tutti uguali.

Ma non è tempo di ammorbarci con questi discorsi, possiamo attendere. È così che si fa ad agosto. Si attende nell'ozio, e quest'anno, poi, è ancora più bello. Avete visto? In giro non c'è quasi nessuno, e le persone che incontri parlano tutte una lingua straniera. Sono turisti, dice il TG1, iniettando la dose quotidiana di pacificante ottimismo … e fa nulla se noi sappiamo che non è così. Ci penseremo a Settembre.

Rita Pani (APOLIDE)

8.02.2011

 

Di Bologna in Bologna

No, non parlerò della strage di Bologna, e non perché voglia scordare, ma proprio perché mi ricordo. Mi ricordo così bene da aver provato un fastidio epidermico, questa mattina, leggendo tanta gente che si sente ancora offesa dall’assenza dello Stato. Quale Stato? Quello che tutti sappiamo essere Stato lui.

Non ne parlo, come non parlo delle innumerevoli commemorazioni dei Giudici Falcone e Borsellino, e anche in questo caso solo perché mi ricordo, e ho rispetto del loro sacrificio umano, e perché ancora una volta, sappiamo bene chi è Stato.

L’ultima volta a Bologna mandarono bondi l’uomo di pezza, quello buono per ogni insulto e per ogni occasione, con la sua faccia di gomma, pronto ad immolarsi per il suo signore. Poi più nulla, come vuole il potere arrogante, che può persino ammettere di proteggere l’idea di una strage fascista, se non gli autori stessi.

Non ne parlo perché mi sono stufata di un popolo che finge di essere ogni anno e ogni volta un’educanda, che cade dalle nuvole ogni anno allo stesso modo, senza mai rompersi la schiena. E poi son stufa dello stupore un tanto al chilo per le cose che non dovrebbero stupire più, ma esser combattute.

Ogni giorno dovrebbe essere non quello dello stupore, ma quello della lotta. Ogni giorno, volendo, avremmo un motivo per scattare, per ritrovarci coi forconi davanti al parlamento, ma siamo tutti qua davanti alle nostre vite che s’intasano di preoccupazione e fatica, troppo impegnati a sopravvivere per concentrarci su chi ci sta uccidendo, così impegnati, che forse è meglio fingere di indignarci perché gli assassini non commemorano le loro vittime.

Se ci guardassimo bene attorno, ogni giorno dovremmo commemorare noi stessi che siamo vittime e carnefici di questo Stato di cose. Domani un mafioso andrà in Parlamento, sfidando le ire delle signore che lo troveranno ingrassato, per parlare finalmente della crisi economica. Dirà che ha esautorato il ministro che aveva fatto troppi tagli, forse ne metterà in dubbio anche l’onestà, visto che senza mezzi termini aveva annunciato che non avrebbe fatto nulla per tenerlo fuori dai guai, allontanandolo dalla Cosca, levandogli la protezione del padrino. Dirà che ha un piano, che il ponte sullo Stretto di Messina si farà, che il CIPE elargirà i fondi per le grandi opere, e le banche – della mafia – si sentiranno nuovamente tutelate, al punto che forse riprenderanno a salire anche le borse.

Se non sarà così, allora ci resta la speranza di avere al fine un nuovo anniversario da festeggiare: quello in cui la mafia – lo stato – gli avrà fatto fare la fine di Salvo Lima.
Questo penso, questo è.

Rita Pani (APOLIDE)


8.01.2011

 

Venerdì 5 Agosto Monteveglio BO


Se a qualcuno andasse ... sarò là.

 

25 cadaveri allineati


Tutto sommato è meglio così. È meglio che siate arrivati già morti in questo paese, almeno qualcuno vi ha visto involti in un telo verde e allineati sulla banchina di un porto. Se non foste morti, di voi, non avremmo saputo mai. Sareste stati quegli anonimi carcerati, rinchiusi nel segreto di uno stato che non ha nemmeno il coraggio di dichiararsi nazista, e che è stato ceduto per loschi affari ed interessi, ad una feccia ignorante che si arroga il diritto di parlare ed agire per conto nostro e in nome nostro.

I giornali dicono che venticinque di voi son morti nella stiva di una barca, per una fuga di gas, o soffocati dal peso delle vostre vite stesse, strette una accanto all’altra, stipati come le merci che trasportiamo per millantare ricchezza. Magari vi siete semplicemente addormentati, e non avete sofferto. O forse lo penso solo per provare meno dolore e meno sconfitta. Dicono che siete stati i primi 25 a salire a bordo e quindi, siete fortunati, perché vi ha ucciso la speranza, ed è assai di più di quel che ucciderà le persone come me, che la speranza l’hanno abbandonata molto tempo fa, e moriranno con disperazione.

Credetemi, non vi è andata poi male. Peggio sarebbe stato mettere i piedi in questo paese che tutto dimentica, che nulla indaga e che niente vuol sapere, affannato com’è a rincorrere piccoli sprazzi di sopravvivenza. Sareste approdati, con la vostra pelle scura, sulla terra dei borghezio, dei bossi, dei maroni e dei calderoli e avreste trovato i lager ad attendervi, a stiparvi ancora come sardine nella stiva, guardati a vista dalla polizia che ormai è libera di sparare e non solo su di voi, ma su qualunque cosa si muova, coperta e protetta da ministri ignoranti che hanno ucciso la democrazia.

Sareste finiti, al massimo, a raccogliere mandaranci a Rosarno, in Veneto a farvi spezzare le gambe perché non capite il dialetto, a far da manovali alla mafia, che ancora vi avrebbe stipato dentro a piccole celle che avrebbero chiamato case, 30 persone in 60 metri quadri, per i quali avreste anche dovuto pagare un affitto. I più piccoli e i più sani sarebbero spariti, usati come pezzi di ricambio per le costose macchine che i reni o i polmoni se li possono anche comprare. O magari i bambini avrebbero conosciuto l’abuso nei centri di accoglienza, dove il buon pastore, in nome di Dio e con un po’ di cocaina, avrebbe insegnato loro che il sesso, oggi, ti fa anche mangiare. A noi, poi, lo avrebbero raccontato quegli studi dell’OCSE o della ACHNUR, ma fidatevi se vi dico che in pochi avremmo letto o versato una lacrima, non riconoscendo più né la nostra storia, né le nostre origini.

Tutto sommato è stato meglio così. È stato un bene che siate morti, almeno per un attimo, forse solo per oggi, siete esistiti. Siete venuti bene anche nella fotografia. Col foglietto bianco del vostro numero sul petto. Ma non attendetevi d’essere ringraziati per il servizio reso alla popolazione italiana, sappiate che per quanto meritoria la vostra opera, ci sarà qualcuno sotto un ombrellone che vi maledirà per avergli offuscato la vista e la vita, e qualche atro che gioirà, e sarà un leghista.

Rita Pani (APOLIDE)

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