10.23.2012

 

Lettera a un lavoratore mai nato (tadadattà!)



Ti guardo negli occhi mentre si scrive il tuo destino e penso, piccolo mio, che tadadattà, altrimenti non sarai mai un lavoratore. Vorrei regalarti una favola, ora che ti ho messo al mondo da disoccupata, ora che contro il volere del mondo ti ho permesso di inalare il primo respiro di polveri sottili che ti accompagneranno per tutta la vita.
Tadadattà! E devi da sperà! Che un domani tu possa sposare la figlia di un uomo ricco, che possa sistemarti. Che tu possa crescere deficiente e bello, in modo che possa venderti. Che tu sappia giocare al pallone, che non importerà a nessuno se sei cretino. Basteranno i tuoi piedi dentro le scarpe fosforescenti.
Non permetterò, piccolo mio, che tu possa sprecare i tuoi giorni, rinchiuso tra le pagine dei libri, ad imparare del mondo tutto quello che non ci sarà più. Ti proteggerò dalla storia, dai vecchi film di nostalgia, dai racconti grondanti morale. Ti preparerò ad affrontare la vita che verrà, per quello che sarà, allenato come un maratoneta, veloce come un podista. Salterai gli ostacoli abbattendo i concorrenti, intralciando il loro passo, uccidendo la loro stupida dignità.
Non odiarmi, ti prego, perché non possiedo un’Università alla quale associarti, né son stata dirigente di una banca per poterti assumere come ricercatore. Non odiarmi se non potrò farti licenziare con 3 milioni e 600 mila euro di buona uscita, dopo solo 14 mesi di lavoro. Non sarà mai così grande la favola che io possa regalarti. Tadadattà! Persino per aver avuto come madre una come me, e tuo padre poveretto! Non odiare nemmeno lui, che ancora vive nel mondo antico che lo fa alzare ogni mattina alle cinque, per infilarsi in quell’orribile tuta blu. Finiranno anche per lui questi giorni, con un cancro o con la disoccupazione. Ti prometto, a te non capiterà mai.
Ti insegnerò a percorrere le nuove vie di questo nuovo mondo, già inventato e tutto da inventare, dove il futuro è là ad attenderti se solo lo vorrai, se non sarai troppo selettivo o schizzinoso. No, cucciolo mio, non farò mai di te un lavoratore. Non sarai mai schiavo. Ho mille favole da poterti narrare, ho mille sogni da poterti regalare.
Potrai essere un mafioso, avere una bella auto e tutte le donne che vorrai violentare. Potrai essere tu il padrone degli schiavi, e tutti s’inchineranno e ti chiameranno imprenditore. Potrai sfruttare i poveri e i dimenticati, e quando esausti moriranno, potrai comprarne altri in questo mondo che s’è fatto mercato. Potrai vendere le donne e le bambine, in cambio di appalti  e tangenti. Potrai sfruttare i vizi altrui per averne dei tuoi. Imparerai a ricattare e a taglieggiare, e accrescerai la tua rispettabilità. Farai affari con coloro che le favole le hanno inventate, e se sarai bravo come ti dice mamma tua, alla fine anche tu potrai scrivere le pagine di questa meravigliosa favola politica.
Tadadattà! Figlio mio, al mondo che è venuto, che ora che ti ci ho messo ci devi da stà! Non permetterò mai che tu sia un lavoratore, uno di quelli che ricerca la cura per il cancro, o che inventa le auto che non inquinano. Non costruirai mai case che stanno in piedi con i terremoti. Mai nella vita dovrai essere uno di quelli che ama la terra e la protegge. Uno di quelli che non avrà paura delle piogge.
Sarai il principe di questa nuova favola; sarai quello che farà franare la terra con la pioggia, che farà crollare le case con le vite dentro, sarai quello che butterà cemento dentro il mare per un ponte che non si farà mai, sarai un procacciatore di organi da trapiantare, sarai un venditore di protesi inutili, snifferai cocaina, sarai un usurpatore, un debosciato, una nullità, un disgraziato. Non lavorerai mai, figlio mio. Sarai il politico più mafioso che c’è. Sarai felice. Te lo giuro, figlio mio!
Rita Pani (APOLIDE)


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