3.02.2005

 

Alla nostra Repubblica restano 15 ore

di Raniero La Valle
La Repubblica ha quindici ore. Tante sono infatti quelle che i capigruppo del Senato hanno assegnato al dibattito e al voto sulla nuova Costituzione, dopo di che, l'8 marzo, essa dovrà essere approvata, per volere della maggioranza, senza alcun emendamento, nell'identico testo trasmesso dalla Camera. Dunque l'8 marzo dovrebbe essere concepita la nuova Repubblica, per atto congiunto della Camera e del Senato. Poi ci vorranno tre mesi per la seconda lettura, e già l'8 giugno la nuova Costituzione, interamente riscritta nella seconda parte e di fatto svuotata e lasciata sguarnita nella prima, potrebbe essere varata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, per entrare in vigore entro l'anno, come ha detto il ministro Urso sabato scorso agli imprenditori. A meno che il referendum popolare, all'ultimo momento utile, non la cancelli. Così stando le cose l'8 marzo l'Italia, salvo questa condizione risolutiva che sta nelle mani del popolo sovrano, potenzialmente cesserà di essere una Repubblica parlamentare di democrazia rappresentativa, per essere ridisegnata nelle forme di un regime del Primo Ministro, come i costituzionalisti fascisti definivano il regime instaurato da Mussolini a partire dal 1924. Il Parlamento sarà espropriato dei suoi poteri, essendo reciso il rapporto di fiducia da cui oggi dipende la legittimità del governo, e sarà privato della sua funzione rappresentativa, che sarà tutta concentrata nel Primo Ministro che da solo dovrà in se stesso mediare ed esprimere l'intero pluralismo sociale. L'ideologia è quella dell'investitura elettorale che, senza il filtro della scelta del Presidente della Repubblica (ridotto a un ruolo liturgico) e della fiducia parlamentare, direttamente abilita il Primo Ministro a governare e ne garantisce l'inamovibilità. Ma il mandato popolare, enfatizzato per quanto riguarda il Primo Ministro, non conta nulla per i parlamentari, che in ogni momento egli può mandare a casa, sciogliendo la Camera, sotto la sua "esclusiva responsabilità", quando essa non goda più la sua fiducia o per qualsiasi altro motivo di utilità politica. E quando fosse la maggioranza a non avere più fiducia nel suo Primo Ministro, non potrebbe mandare a casa lui senza andare a casa anche lei, con tutta la Camera che sarebbe automaticamente sciolta, salvo che la stessa maggioranza tutta intera e senza ribaltoni per infiltrazioni del nemico, riuscisse a nominarne un altro. Il Parlamento subisce una doppia disintegrazione. La prima sta nella divisione tra Senato e Camera, avviati verso due destini istituzionali diversi; il Senato perde la sua funzione politica e legislativa generale, non si occupa del governo ma delle regioni, e deve muoversi in un groviglio di competenze così complicato, tra Stato e regioni, tra Camera e Senato, commissioni bicamerali e comitati paritetici, col solito Primo Ministro che gli può togliere una legge in esame e passarla alla Camera, che sarà impossibile uscirne, così che ben più che dirsi Senato "federale", dovrebbe chiamarsi Senato degli sfasci. La seconda disintegrazione avviene all'interno della Camera, per la divisione anche istituzionale tra maggioranza e opposizione, che vengono a costituire due corpi o corporazioni separati, con diversi statuti e diversi poteri, che vengono distinti perfino nel nome, che per la maggioranza e il governo vengono definiti come "prerogative", e per le opposizioni "diritti"; ma tali diritti si riducono sostanzialmente a un diritto di tribuna, parlare ma non contare, come quegli invasati che liberamente possono parlare allo "speaker's corner" su una panchina dello Hide Park. Tanto non contano i parlamentari delle opposizioni che, se presi da un raptus di buonismo votassero contro una mozione di sfiducia al governo, il loro voto non sarebbe contato nella formazione della maggioranza della Camera, che dovrebbe essere costituita dai soli deputati della coalizione che ha vinto le elezioni, né tanto meno potrebbero concorrere alla indicazione di un altro Primo Ministro. A questo punto non c'è alcun bisogno che i deputati delle opposizioni siedano nella stessa aula, perché né gli uffici li contano nel computo dei voti né i deputati della maggioranza hanno alcun motivo ragionevole per starli ad ascoltare. Possono benissimo andarsene a parlare altrove: l'Aventino è istituzionalizzato e sta in Costituzione. Sicché formata da questi due corpi o "Stati" separati, la Camera ben potrà dirsi la Camera delle corporazioni. Non aggiungiamo altro sulla neutralizzazione degli altri poteri dello Stato, per dire solo che tutta l'operazione è anticostituzionale perché, come ha magistralmente mostrato Luigi Ferrajoli su il manifesto, il potere di revisione previsto nell'attuale Carta è un potere costituito ma non costituente (non si può fare un'altra Costituzione) e ci sono principi fondamentali, compreso quello di rappresentanza che, come ha affermato la Corte, non sono suscettibili di revisione costituzionale. E c'è una domanda inquietante: perché Berlusconi scrive e licenzia una Carta che dà al Primo Ministro tutti i poteri e toglie all'opposizione ogni potere, quando ci sono delle elezioni in cui potrebbe perdere la maggioranza? Nessuno fa un regime per gli altri (tanto più se dice che porteranno povertà terrore e morte); chi ha fatto un regime lo ha fatto sempre per sé. Come Berlusconi pensa di essersi assicurato contro questo rischio? Il peggio è che tutto questo avviene senza che nessuno lo sappia o mostri di allarmarsi; tutto il processo di sovvertimento costituzionale si è svolto in questi mesi senza che alcuna notizia ne trapelasse sui mezzi di informazione, e quando se ne è fatto cenno si è sempre e semplicemente fatto intendere che si trattasse di una riformetta di Bossi, di devolution e di federalismo. Ne discendono alcune questioni di vitale importanza. La prima è: come usare queste quindici ore che mancano. Non col silenzio. Questo è il classico caso delle metaforiche barricate in Parlamento. E su che cosa farle se non sulla liquidazione della Repubblica? Ma se il centrosinistra sceglie la linea morbida, per una ragione tattica, perché tanto c'è il referendum ed è meglio affrettare i tempi per giungervi prima delle elezioni, si tratta di una scelta sbagliata, prima di tutto perché ognuno deve fare la sua parte nel momento in cui gli tocca, e secondo perché senza una battaglia in Parlamento, da cui emerga una leadership anche per la prova referendaria, sarà molto più difficile una mobilitazione popolare. Il referendum, con questi mezzi di informazione, con questa televisione, con questi partiti rarefatti, e anche con questa Chiesa distratta da altre cose, si può perdere, mentre se si arriva fin lì, quella è l'ultima spiaggia per la difesa delle libertà costituzionali. Dio non gioca a dadi, diceva Einstein. Tanto meno si può giocare la Repubblica su un ultimo azzardo. La seconda cosa è che, a mio parere, anche nel congresso di Rifondazione la questione della difesa della Costituzione della Liberazione non può essere un tema tra gli altri, ma quello pregiudiziale a tutto il resto. Si tratta infatti di salvare le condizioni dell'agibilità politica, e le possibilità stesse di un lavoro riscattato e recuperato come diritto. Senza democrazia e senza eguaglianza non c'è neanche lavoro, e non si va "verso un mondo nuovo". Lo stesso è a dirsi della fabbrica del programma di Prodi a Bologna. C'è il rischio di suonare la musica del programma sognato e del mondo futuro sul Titanic che affonda. La terza cosa è che il popolo sovrano non può aspettare per organizzarsi di essere chiamato alle urne, ma fin da ora deve costituire dovunque comitati per il no nel referendum costituzionale. Altro che girotondi! Per questo non ci sono solo quindici ore, prima che la falla sia aperta, ma ci sono alcuni mesi prima che le acque travolgano le ultime difese. L'importante è non farsi chiudere a chiave, impotenti, nei ponti di terza classe. Infine c'è la questione dell'8 marzo. Mi sembra uno sfregio che alle donne, per la loro festa, si regali proprio la demolizione della Costituzione del '47, che in Italia è stata l'inizio anche della loro libertà, della orgogliosa possibilità di esercizio della loro differenza. I nuovi poteri sono disegnati come "maschi", nella solita loro pretesa di onnipotenza, insindacabilità e impunibilità; come tali patetici, anche se assai pericolosi. Ma qui le donne hanno qualcosa da difendere non solo per loro, ma per tutti. L'8 marzo è stato scelto dagli strateghi della destra per il voto del Senato anche contando sul fatto che tutta l'attenzione, femminile e maschile, sia quel giorno rivolta altrove, secondo il rito. Sommessamente propongo alle donne, ai loro movimenti, e anche agli uomini con loro solidali, che quest'anno la festa delle donne si trasformi in una grande manifestazione di volontà politica e di impegno militante per salvare la Costituzione.
1 marzo 2005

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