9.01.2004

 

Da New York una lezione all'Europa

Le manifestazioni di domenica in Usa contro la politica di Bush costituiscono indubbiamente, non solo dal punto di vista dell'immaginario collettivo, un documento straordinario di globalizzazione positiva. Nelle stesse ore, il mondo era "globalizzato" anche dalle immagini dell'ultima giornata delle Olimpiadi greche, contraddittoriamente prodotte e produttrici - com'era inevitabile - di grandi passioni individuali e di enormi interessi economici, di sinceri impeti e di strumentalizzati meccanismi retorici. Ma, anche intrecciandosi e accavallandosi nel sistema mediatico alle immagini e al clima olimpico, la marcia dei 300 mila a NewYork ha evidenziato un'ormai forte e diffusa consapevolezza di massa della unitarietà dei problemi fondamentali dell'umanità: la guerra e la pace, l'aggressività e la tolleranza, l'economia del petrolio e l'economia degli uomini in carne ed ossa. Domenica nella "capitale del mondo" non hanno marciato i soliti quattro radicali Usa, quelli che piacciono tanto agli europei e che, in fondo in fondo, si sentono un po' stranieri in patria. Ha marciato invece un pezzo grande dell'America profonda, forse quella che ne rappresenta la maggioranza sociale ed elettorale. Giovani, donne, uomini, pacifisti, "anarchici", signore-bene, veterani del Vietnam, reduci da Najaf, gay, ragazze in topless, lavoratori, libertari, anziani, creativi, naturalmente anche i Michael Moore, i Jesse Jackson, ma anche migliaia e migliaia di esponenti del ceto medio impoveriti, di bianchi e neri alle prese con i problemi della sanità, delle assicurazioni...L'"altra faccia" dell'America, forse la faccia vera del popolo americano, finalmente al centro della scena mediatica. Ancora una volta sotto la spinta del "no" alla guerra. Come da noi. Sembrava in effetti di assistere a uno dei nostri cortei contro la guerra. Quasi con le stesse forme, certo con lo stesso spirito. Anzi mi è parso che, fra quei trecentomila, fossero ancora più accentuate che da noi l'intenzione e la capacità del movimento di dettare esso qualcosa alla politica. Non solo il "no" secco e deciso a Bushe alla sua politica di guerra preventiva, ma anche l'avvertimento a Kerryper un impegno inequivocabile sulla pace, sulla giustizia sociale e suidiritti civili. Mi sembra un fenomeno in grande sintonia con l'invito rivolto da Rifondazione a tutte le forze che si richiamano al centrosinistra, proprio in queste settimane, a non sovrapporsi alla gente, a non chiudersi nei meccanismi autoreferenziali dei ceti dirigenti, a sviluppare la democraziadal basso per poter poi arrivare, solo partendo di qui, al programma, alle scelte concrete per una coalizione democratica. Ma domenica da New York è arrivato un secondo segnale che non vale solo per noi italiani, ma per tutto il vecchio continente. Nonostante una formidabile pressione dal basso, che ha già prodotto decine di straordinarie manifestazioni nazionali contro la guerra, non abbiamo ancora avuto una forte, unitaria manifestazione europea. Questa volta sono gli americani a darci una lezione proprio su un terreno di capacità e spirito di mobilitazione che, storicamente, sembrava tipico dell'Europa.
ALESSANDRO CURZI

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